Generalmente si parla di povertà quando manca il lavoro. Negli ultimi anni, però, numerosi studi hanno mostrato che anche chi un lavoro ce l’ha, rischia di cadere in povertà a causa dello stipendio particolarmente basso.
Avere, dunque, un lavoro non rappresenta più un’assicurazione contro il rischio d’indigenza. Si può essere poveri anche lavorando.
I dati parlano chiaro. Nel nostro Paese, un quarto dei lavoratori totali ha una retribuzione individuale bassa, cioè, inferiore al 60% della media (11.500 euro in base ai valori del 2018).
Si tratta comunque di un fenomeno europeo, pur se nel nostro Paese i livelli di rischio di scivolare in situazioni d’indigenza sembrano più alti che altrove.
Un dato significativo, che emerge da quasi tutti gli studi sul fenomeno, riguarda le cause della povertà lavorativa.
Non si tratta solo di salari bassi, ma di un processo che va ben oltre lo stipendio e che riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati in un anno), la composizione familiare e l’azione redistributiva dello Stato.
Nel 2020 la massa salariale è scesa in Eurozona del 2,4%, in Italia ha avuto un tracollo del 7,2%. Anche depurando il dato italiano dall’ampio sostegno derivato dalla Cassa integrazione (17,3 miliardi in più sul 2019) l’insieme dei salari scende del 3,9%, molto di più del livello europeo.
In Italia ci sono 3 milioni di precari, 2,7 milioni di part-time involontari (di cui una parte anche precari), 2,3 milioni di disoccupati ufficiali (4 milioni se includiamo gli inattivi). Il lavoro povero e discontinuo che riguarda il nostro Paese è davvero uno spaccato troppo alto, ingiusto e insostenibile. Sconfiggere il lavoro malpagato e per di più precario è prioritario.