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LAVORO, GIOVANI E DONNE IN ITALIA

Set 7, 2023

SITUAZIONE ATTUALE E PROSPETTIVE

Il mondo del lavoro nel nostro Paese è in continua e rapida evoluzione. L’Istat registra una crescita dell’occupazione, con oltre il 60% della popolazione occupata, ed è un dato positivo.  Tuttavia, permangono criticità, in particolare riguardo al lavoro di giovani e donne.

In Italia, il tasso di disoccupazione giovanile è al 21,7%; quasi un quinto dei giovani non studia né lavora; in media, una percentuale compresa tra il 5 e l’8% dei laureati emigra annualmente all’estero, tanto da essere il nostro, l’unico Paese tra le principali economie mondiali in cui le partenze di studenti e giovani lavoratori superano gli ingressi.

Infine, in Italia appena una donna su due ha un’occupazione. Altrettanto allarmanti sono le disuguaglianze territoriali e di genere che sembrano aumentare anziché calare. Il flusso di giovani dal Mezzogiorno al Nord appare inarrestabile e restano evidenti disparità salariali tra donne e uomini.  Il lavoro sta subendo una trasformazione culturale. Recenti sondaggi e pubblicazioni mostrano un fenomeno interessante sulle motivazioni lavorative delle giovani generazioni. Il criterio principale per scegliere un’occupazione non è più soltanto lo stipendio, ma la ricerca di un sano equilibrio tra mansioni lavorative e vita personale e sociale, e al contempo la scelta di un percorso di crescita professionale.

Il lavoro viene sempre più spesso vissuto come un obbligo funzionale alla sopravvivenza e non come l’ambito in cui esprimere sé stessi e la propria appartenenza alla collettività. Fenomeni quali “great resignation” (grandi dimissioni), “yolo” (you only live once – vivi solo una volta) e “quiet quitting” (difesa dal lavoro facendo lo stretto necessario), mettono in luce un cambio di mentalità dei lavoratori e mostrano che è in discussione il motivo ultimo del lavoro, il perché valga la pena mettersi in gioco. Con il lavoro l’uomo cerca una soddisfazione piena. Emerge chiaramente oggi la necessità che il lavoro sia uno spaziotempo in cui poter costruire relazioni positive, non solo rapporti professionali, ma anche amicizie sincere e durature.

L’auspicio è che questa possibilità possa essere per tutti, e non solo per pochi eletti. Occorre quindi trovare una via di comunicazione e di condivisione dei valori tra la generazione del secondo dopoguerra, quella dei “boomer”, dei più anziani, e le nuove generazioni. Da una parte, chi muove i primi passi nel mondo del lavoro trova nell’esperienza di chi è più avanti nel percorso e nell’età una risorsa importante sul piano dei valori morali ed etici,  su quello delle competenze acquisite sul campo e sul piano dell’esperienza. D’altra parte, chi vuol comprendere la mentalità e le esigenze dei giovani non può prescindere dall’ascolto dei giovani stessi.

La comunicazione intergenerazionale è sempre più difficile, anche a causa delle diverse categorie di linguaggio. Infatti, quello del lavoro è un mondo poliedrico, in cui la diversità è una ricchezza e non un ostacolo. Il punto di sintesi unitario è la valorizzazione della persona nella sua integrità. E per far questo occorre che gli anziani si aprano all’uso delle tecnologie, ai linguaggi dei social e della multimedialità; parimenti è necessario che i giovani non dimentichino la comunicazione vecchio stampo, fatta di colloqui in presenza, dialoghi e conversazioni ravvicinate e di persona.

Il pensiero economico, e dunque il lavoro, spesso oscilla tra due mentalità: l’idea neoliberista dominata dalla massimizzazione e dall’ottimizzazione dell’utilità individuale, ed il pensiero statalista o assistenzialista, che non affronta veramente il bisogno di tutti di avere un’occupazione. Entrambe queste visioni trascurano la dimensione relazionale.  Forse però esiste una terza via, in cui le relazioni sociali, familiari e lavorative insieme siano una leva per lo sviluppo e per la piena occupazione.

Una via in cui anche il lavoro può essere luogo di un’amicizia autentica e sincera. Una strada dove profitto, carriera, ambizioni, etica ed amicizia possono andare a braccetto. Il lavoro non visto solo come dovere, fatica,  sudore e sacrificio, ma anche come opportunità, come estrinsecazione della personalità, luogo in cui trovare rifugio dalle sofferenze e dai dolori della vita privata e familiare, luogo non solo fisico in cui realizzarsi e sentirsi appagati, soddisfatti e felici: non solo dal punto di vista economico, ma anche in una prospettiva sociale e relazionale.

Per altro verso, esiste un’Italia spaccata in due anche per la qualità del lavoro. Come viene puntualmente registrato dalle indagini degli istituti di ricerca, quando si parla di qualità della vita e dei servizi c’è un Paese con standard di livello europeo al Nord Italia, e uno decisamente più arretrato nel Meridione, dove spesso sono i giovani e le donne a pagare il prezzo più alto dei ritardi accumulati. Anche la qualità del lavoro non fa eccezione rispetto a questa divisione ormai consolidata nella società e nell’economia italiana.

Lo dimostra l’ultima indagine sulla “Qualità del lavoro” condotta dall’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) che ha coinvolto numerosissimi lavoratori e molte imprese su tutto il territorio nazionale. Lo studio colloca l’Italia a metà classifica tra i Paesi dove la qualità del lavoro è più elevata, (Svezia, Finlandia, Germania, Austria, Svizzera) e i Paesi dell’Est Europa, che sono in fondo alla graduatoria soprattutto per una scarsa protezione nel mercato del lavoro e dell’ambiente lavorativo.  Se lo sguardo si allarga oltre la dimensione territoriale, emergono poi spaccature più ampie che segmentano il mondo del lavoro secondo le direttrici di genere e di età.

Così, mentre la qualità del lavoro risulta essere mediamente migliore per gli uomini con medio-alti livelli di istruzione e di età avanzata, i giovani e le donne sperimentano (anche qui) abitualmente condizioni di lavoro meno favorevoli. Secondo l’indagine infatti, a fronte di un 37% dei lavoratori che dichiara di non avere alcuna flessibilità rispetto all’orario, la quota di donne che lamenta questa difficoltà è pari al 42% e si proietta al 50% quando si parla di dipendenti pubblici. Un ulteriore elemento critico riguarda l’immobilismo nelle carriere professionali, che coinvolge il 69% degli occupati e presenta valori addirittura maggiori tra i dipendenti pubblici e tra i giovani tra i 18 ed i 34 anni (73%).

Approfondendo la differenza di genere emerge come le donne (che rappresentano il 42% degli occupati) abbiano minori livelli di qualità del lavoro nella dimensione economica, dell’autonomia e del controllo; ciò può essere forse un po’ spiegato da quella parte di discriminazione di genere che ne limita l’accesso a determinate occupazioni e settori, ma anche dalle scelte, in alcuni casi obbligate, che le stesse donne compiono in termini di investimento sul lavoro retribuito e sul lavoro di cura. In Italia, l’impegno richiesto dalla conciliazione tra vita professionale e vita privata è una prerogativa quasi esclusivamente femminile (e questo è un dato allarmante su cui occorre riflettere ed intervenire).

É la componente femminile a rinunciare spesso a percorsi lavorativi impegnativi che richiedono un investimento importante, soprattutto in termini di orario di lavoro. Un sintomo evidente di tale meccanismo è l’elevata quota di lavoro part-time che coinvolge le occupate. Ciò influenza negativamente anche altri aspetti, in primis quello economico. Seguendo invece le disomogeneità per età, anche i giovani risentono di una più bassa qualità del lavoro in termini economici. Nel dettaglio, la componente giovanile dell’occupazione (che rappresenta circa il 21,3% dei lavoratori), oltre ad avere difficoltà d’ingresso nel mercato del lavoro, consegue spesso lavori caratterizzati da retribuzioni ridotte, contratti non standard (temporanei e part time) e spesso non idonei per il titolo di studio conseguito. 

Se questo è lo stato dell’arte nel mondo del lavoro in Italia oggi, quali sono le prospettive per migliorare le condizioni occupazionali di giovani e donne? Indubbiamente non sarà un percorso agevole e rapido. Occorre innanzitutto una predisposizione ad un cambio di mentalità da più parti. Le istituzioni, le aziende, i lavoratori, ma anche i sindacati, la politica e gli intermediari finanziari e sociali, devono (dobbiamo) tutti attivarci per puntare forte su sistemi di economia nuovi, basati sulla vicinanza territoriale e sulla prossimità, sulla fiducia, sulla solidarietà, sull’etica, e su un’economia circolare e sostenibile che oggi più che mai sembra uno dei pochi spiragli praticabili.

Con l’inflazione alle stelle, il carovita crescente (specie nelle grandi città), i tassi di interesse che lievitano, l’aumento del prezzo di molte materie prime, oggi è del tutto evidente come l’economia di mercato pura e semplice non basti più. I carrelli della spesa nei supermercati sono semivuoti, giovani e donne (in teoria le categorie che possono in prospettiva rendere di più e meglio) fanno fatica, dati alla mano, ad affermarsi nel mondo del lavoro.

Ed è per questo che serve – anzi forse sarebbe più corretto dire urge – un cambio di passo deciso e forte, verso un’economia più umana, etica ed ecosostenibile. Calmierare alcuni prezzi di beni di prima necessità, ridurre le tasse e azzerare i costi pubblici e gli sprechi (tanti) di denaro pubblico, riequilibrare gli stipendi tra lavoro pubblico e lavoro privato (oggi anche il mito del posto fisso nel settore pubblico è in lento declino), e soprattutto creare le condizioni perché i giovani e le donne possano lavorare e produrre alacremente e felicemente, realizzarsi e metter su famiglia senza essere costretti ad emigrare o a lasciare le terre natie, sono solo alcune piccole grandi sfide che la politica, la cittadinanza attiva e noi stessi come Confeuro e come promotori di iniziative sociali dovremmo (dobbiamo e possiamo) condurre in porto, o almeno portare all’attenzione degli organi decisionali.

Da ultimo, una proposta: con l’abbassamento dei tanti costi inutili della politica (recentemente abbiamo ridotto sensibilmente il numero dei Parlamentari) potremmo incrementare i denari pubblici da destinare ad un concreto sviluppo del welfare Statale ed aziendale, con l’obiettivo di investire proprio su giovani, donne, aumento delle iniziative di solidarietà sociale e redistribuzione della ricchezza, ritorno alla circolarità dell’economia e ad un’economia più umana e sostenibile.

Investire nella ricerca, nelle start up digitali ed ecosostenibili, e promuovere concretamente (anche con investimenti importanti) la crescita dei nuovi talenti in Italia, arginando il fenomeno della fuga dei cervelli, senza dimenticare iniziative sociali come la creazione di sinergie tra famiglia e scuole (ad esempio, aumentando le ore di apertura delle scuole a fine giugno e ai primi di settembre prevedendo attività extracurricolari per dare la possibilità a tutte le famiglie di conciliare i tempi tra lavoro e vita privata e familiare).

Se ci mettiamo impegno e volontà, possiamo far ripartire il nostro bel Paese che, ahimè, tuttora arranca.