La crisi climatica e quella della giustizia sociale sono due fenomeni strettamente intrecciati, anche se spesso questo collegamento viene ignorato o sottovalutato. Non è possibile risolvere la prima senza intervenire sugli effetti della seconda.
Secondo il programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) il cambiamento climatico è, a tutti gli effetti, una questione di giustizia. È un messaggio che dovrebbe essere al centro delle discussioni della prossima Cop 29, che si terrà in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre 2024.
L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sottolinea chiaramente la correlazione trai cambiamenti climatici, povertà e disuguaglianze. Gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGS) pongono al centro della loro azione la necessità di ridurre la povertà globale insieme alla lotta al riscaldamento del Pianeta.
Ma cosa ha portato Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU a ribadire questa connessione?
Le nazioni più povere e le comunità più vulnerabili, che hanno dato un contributo minimo all’aggravarsi della crisi climatica, sono quelle che subiscono maggiormente le sue conseguenze devastanti. Di conseguenza, affrontare il cambiamento climatico non significa solo ridurre le emissioni di gas serra ma anche combattere le disuguaglianze che alimentano tale crisi.
Esistono vari aspetti che mettono in luce quanto siano interconnesse queste due sfide globali, dimostrando che la giustizia climatica è fondamentale per una vera soluzione alla crisi ambientale.
Le cause
Le origini della crisi climatica non ricadono equamente su tutti. Secondo il World Inequality Report 2022, le persone con maggior risorse economiche sono responsabili di una parte eccessiva delle emissioni di carbonio a livello globale. Il 10% della popolazione più benestante è infatti responsabile di quasi metà delle emissioni mondiali, circa il 48%, mentre il 50% della popolazione con minori mezzi contribuisce solo al 12%. Questi dati evidenziano un forte squilibrio nella responsabilità della crisi ambientale, che grava in modo diverso sulle varie fasce della popolazione.
Gli individui appartenenti al 10% più ricco del mondo emettono in media 73 tonnellate di carbonio a testa ogni anno, mentre il 50% più povero della popolazione, contribuisce solo con una tonnellata pro-capite.
Per avere una versione più chiara di queste cifre, i ricercatori hanno confrontato i livelli attuali di emissioni individuali sostenibili che sarebbe necessario per contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°c. Questo limite, o “budget pro-capite sostenibile” è stimato in 3,4 tonnellate di carbonio per persona all’anno fino al 2050.
Secondo Antonio Guterres, Segretario Generale dell’Onu, non solo le responsabilità della crisi climatica non è distribuita equamente tra i diversi paesi e gruppi sociali, ma le conseguenze più gravi ricadono spesso su coloro che meno hanno contribuito alle emissioni di gas serra.
I più vulnerabili, definiti “innocenti climaticamente” sono le prime vittime dei cambiamenti climatici, pur avendo un impatto minimo sull’aumento delle emissioni globali. Questo squilibrio è al centro dell’Agenda 2030 dell’ONU, che evidenzia come il cambiamento climatico minacci in modo diretto i progressi verso l’eliminazione della povertà e la riduzione delle disuguaglianze.
Gli effetti
Le manifestazioni di queste disuguaglianze climatiche possono essere osservate in tre ambiti diversi.
1. Disuguaglianza tra paesi: gli effetti della crisi climatica e la capacità di rispondervi, variano enormemente a livello globale. I paesi a basso reddito che hanno limitato risorse economiche e infrastrutturali, sono i più colpiti dai danni legati al clima, come siccità, inondazioni e tempeste, pur avendo contribuito molto meno alle emissioni che causano il riscaldamento globale. Le comunità in questi paesi sono spesso più esposte e meno capaci di adattarsi e recuperare.
2. Disuguaglianza all’interno dei paesi: anche all’interno di una singola nazione, le conseguenze del cambiamento climatico non sono uniformi. Le disuguaglianze strutturali basate su fattori come la razza, il genere, l’etnia e la condizione socio-economica determinano chi subisce maggiormente gli impatti climatici.
Le donne, in particolare, in società più vulnerabili, sono spesso maggiormente colpite perché hanno accesso ridotto a risorse come terra, denaro o mezzi per adattarsi ai cambiamenti climatici. Le persone con disabilità che già affrontano numerosi ostacoli, sono più a rischio nei contesti di emergenza climatica, come la mancanza di accesso a cure mediche adeguate, acqua potabile e mezzi di sussistenza sicuri.
Le comunità indigene che custodiscono circa il 30% della biodiversità del pianeta, si trovano in una situazione particolarmente precaria.
Pur essendo tra i migliori protettori dell’ambiente, sono continuamente minacciati dagli effetti del cambiamento climatico, che mette a rischio i loro territori, le loro conoscenze tradizionali e i loro mezzi di sussistenza. Queste comunità sono spesso marginalizzate e meno supportate nei processi decisionali globali, nonostante il loro ruolo cruciale nella conservazione dell’ecosistema.
2. Disuguaglianza tra generazioni: le giovani generazioni di oggi, inclusi i bambini e gli adolescenti, non hanno giocato un ruolo rilevante nel causare la crisi climatica, ma saranno quelle che ne subiranno le conseguenze più pesanti nel corso della loro vita.
Le scelte fatte dalle generazioni precedenti stanno minacciando i loro diritti fondamentali, e per questo motivo è essenziale che i loro interessi sono posti al centro di tutte le decisioni e azioni relative al clima. Assicurare un futuro più sicuro e sostenibile per loro deve diventare una priorità assoluta nelle politiche ambientali.
Conclusione
Le disuguaglianze create e aggravate da un cambiamento climatico rappresentano una questione che richiede interventi mirati per proteggere chi è più vulnerabile, sia a livello nazionale che globale.
(Carmela Tiso)