Dopo oltre 15 anni di discussioni, di cui quattro di negoziati formali, la terza sessione “finale” nella sede di New York è stata finalmente quella giusta, o quasi.
Gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo, dopo anni di negoziati, per proteggere l’Alto mare, un tesoro fragile e vitale che copre quasi la metà del pianeta, con l’obiettivo di contrastare le minacce agli ecosistemi vitali per l’uomo.
L’alto mare inizia dove finiscono le zone economiche esclusive degli Stati, a un massimo di 200 miglia nautiche (370 chilometri) dalla costa, occupa circa due terzi dell’oceano e non è sotto la giurisdizione di nessuno Stato.
Questa zona fa parte delle acque internazionali, quindi al di fuori delle giurisdizioni nazionali, in cui tutti gli Stati hanno il diritto di pescare, navigare e fare ricerca. Allo stesso tempo, l’Alto Mare svolge un ruolo vitale nel sostenere le attività di pesca, nel fornire habitat a specie cruciali per la salute del pianeta e nel mitigare l’impatto della crisi climatica.
Finora nessun governo si è assunto la responsabilità della protezione e della gestione sostenibile delle risorse di Alto Mare, il che rende queste zone vulnerabili. Di conseguenza, alcuni degli ecosistemi più importanti del pianeta sono a rischio, con conseguente perdita di biodiversità e habitat.
Secondo le stime, tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione.
Soddisfatta Greenpeace per cui questo trattato è una “vittoria monumentale per la protezione degli oceani che ci permetterà di proteggere il mare, aumentare la nostra resistenza ai cambiamenti climatici e proteggere la vita e il benessere di miliardi di persone”, sottolineando che l’accordo dà una possibilità concreta all’obiettivo 30×30: proteggere il 30 percento degli oceani entro il 2030.
Il testo, frutto di un negoziato serrato, presenta comunque dei punti critici e adesso sta ai governi ratificare al più presto il trattato e quindi metterlo in pratica in modo rapido, efficace ed equo.